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IL PUNTO

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CON LA FIOM IL 16 OTTOBRE A ROMA
Contro l’odierna barbarie e lo scadimento dei rapporti sociali occorre tornare ad impossessarsi delle acquisizioni fondamentali e delle idee basilari del movimento d’emancipazione sociale.

di Cristiano Valente

In questo momento politico di massima confusione e d’arretramento culturale, il senso di sgomento e la barbarie della condizione sociale in cui milioni di lavoratori si trovano, rischiano di travolgere le più elementari acquisizioni di conoscenza e di riflessione politica che si credevano acquisite per sempre.
Il dibattito politico e sindacale si snoda fra presunte opposizioni politiche ed organizzazioni sindacali che non riescono a definire la più che minima barriera ai continui arretramenti contrattuali, salariali, normativi, giuridici e culturali che le masse lavoratrici sono costrette a subire e un presunto governo lacerato al suo interno che ogni giorno mostra le sue connivenze con settori malavitosi e criminali, incapace oramai di garantire il blocco sociale di riferimento, al quale realisticamente non resta che pochi mesi di vita.
Tutto “l’affaire” Fini, il suo distacco/espulsione dal Partito della Libertà seppur scoperchiando un sinistro terreno fatto di dossieraggi, ricatti, campagne di stampa intimidatorie, oltre che dell’abituale nepotismo nei confronti di familiari dei politici (mogli, mariti, suoceri e cognati ecc..) ha  questo retroterra materiale: la crisi del blocco sociale di riferimento del Governo Berlusconi.
Piccola e media imprenditoria, liberi professionisti, commercianti che pure in questi anni hanno avuto grandi margini di arricchimento e maggiori rendite avvertono il morso della crisi e la riduzione delle loro possibilità economiche e sociali.
Con margini di profitto sempre più ridotti e una competizione industriale e commerciale sempre più spinta la stessa Confindustria si erge a paladina della battaglia contro l’evasione fiscale e contributiva.
Nuove e vecchie superstizioni, religiose e non, dal ”dio” Po, alla Padania, finti guru, nuovi unti del signore, sono gli inevitabili approdi alle quali sempre più larghi settori popolari sono portati a credere.
E’ questa la situazione della classe lavoratrice e delle nuove generazioni, privi di possibilità concrete di vivere dignitosamente ed escluse da qualsiasi possibilità di un futuro più o meno ipotizzabile.
Si pensi all’assoluta assenza di una prospettiva pensionistica per la generazione di nuovi lavoratori entrati nel mondo del lavoro negli anni ’90; o si pensi alla futura generazione che rischia concretamente di saltare quest’appuntamento, lacerata fra precariato a vita, redditi insufficienti, assenza totale di prospettive sociali e personali.
E’ il caso di ripercorrere le tappe iniziali di una riflessione che ha portato in due secoli al convincimento che solo una società altra dal capitalismo può garantire a tutti la possibilità di avere un futuro.
Diceva un giovane Marx, non ancora del tutto immerso nella battaglia politica, quando ancora era necessario definire un metodo di analisi e di comprensione del mondo:
 “il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, il presupposto cioè che per poter "fare storia" gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e il bere, l'abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa “
(Ideologia Tedesca. Libro I° par. II° Karl Marx - Friedrich Engels 1846)
In sostanza ciò che era oramai chiaro oltre 150 anni fa è che, senza una raggiunta tranquillità economica e sociale, non vi è produzione d’idee, tanto meno sviluppo o progresso sociale.
Errico Malatesta, internazionalista anarchico, alla vigilia di quel periodo noto come controrivoluzione preventiva che fu il fascismo in Italia, declinava questo convincimento con parole ancora più chiare, in un articolo di critica a chi in perfetta malafede attribuiva agli anarchici la teoria del tanto peggio, tanto meglio.
“ se volessimo compendiare in una formula le nostre idee sulla questione dell’influenza che le condizioni materiali hanno sullo sviluppo morale degli individui e quindi sulla loro volontà, noi anziché tanto peggio, tanto meglio diremmo piuttosto l’appetito vien mangiando. La miseria deprime ed abbrutisce e per miseria non si fanno rivoluzioni: tutto al più si fanno sommosse senza domani”
(Umanità Nova n° 102-26 giugno1920 “Tanto peggio, tanto meglio” - Errico Malatesta)
Questi basilari quanto fondamentali concetti sembrano, (hai noi!), oramai smarriti.
Ciò a cui assistiamo, da parte delle forze politiche e sindacali, quelle che dovrebbero garantire una rappresentanza al mondo del lavoro ed un’alternativa all’attuale compagine governativa, è un balbettio quotidiano sulla necessità di una riforma elettorale, di cui per altro non se ne conosce il contenuto, alla ricerca spasmodica di “centri” politici o terzi poli, alla necessità di conquistare un quanto mai mitizzato ed indefinito elettorato moderato e cosi via, con tutto un ciarpame lessicale di una sinistra politica e sindacale oramai allo sbando.
Assolutamente niente di quello che sarebbe necessario definire quali condizioni ed obiettivi inderogabili su cui puntare e mettere in atto una tattica di lotta politica e sindacale precisa per ottenere un risultato credibile.
Se, come finalmente riconosce anche la CGIL, in questi ultimi dieci anni il “maltolto”, cioè la quota di reddito che si è spostata a favore dei profitti industriali e delle rendite è di oltre 5.000 euro per ogni lavoratore, ciò che occorre è mettersi in condizione di risanare tale distanza e risalire questa rovinosa china.
La questione salariale è diventata o dovrebbe essere prioritaria. Chiedere sostanziali aumenti retributivi non è più rimandabile. E’ un fatto conclamato. Ce li hanno presi loro. Sappiamo chi li ha presi.
E’ questa la grande battaglia da fare e con la quale misurarsi declinandola su tutti gli altri terreni che la controparte ci mette fra i piedi.
Se il contratto dei meccanici viene disdettato, è evidente che la battaglia primaria è quella di non farsi isolare ed arrivare al tavolo della trattativa.
Ma per fare questo, con rapporti di forza favorevoli ai lavoratori, occorre determinare una situazione nelle fabbriche, nei siti produttivi e complessivamente nel paese, tale da costringere la controparte padronale ad accettare la trattativa e rilanciare la questione salariale.
Si costruisca su questa parola d’ordine uno sciopero generale, ancora non programmato dall’inizio della conclamata crisi (settembre 2008)in tutto il mondo del lavoro; si usi in maniera intelligente tutta la forza e la capacità tattica che il movimento operaio dispone.
Ci sono settori che trainano l’esportazione? bene si blocchi quelli. Dalla diportistica di lusso al settore agroalimentare. Si blocchi i Porti e la Portualità.
Si usino i lavoratori pubblici che non hanno immediatamente il ricatto del licenziamento e della disoccupazione o della Cassa Integrazione, per battaglie sindacali locali o regionali, all’interno degli Enti Pubblici, legati ai servizi essenziali. Dai trasporti all’acqua a gestione pubblica, all’uso e all’utilizzo dei territori destinati sempre ad una nuova ed irresponsabile cementificazione, s’imponga noi il terreno di scontro.
Non abbassiamo ulteriormente il livello di conflitto sociale.
Non ripetiamo l’errore degli anni ‘70/’80 quando si manifestarono i primi segnali della crisi internazionale, dopo i risultati economici e sociali da record degli anni 50/60 dovuti alla distruzione immane di merci e di vite umane che rappresentò la seconda guerra mondiale.
Come tutti gli errori che si ripetono una seconda volta, dalla tragedia si passerebbe alla farsa, ed i risultati sarebbero altamente drammatici per le sorti dei lavoratori e per le future generazioni.
Quegli anni, che in maniera mistificante una certa letteratura politica e sociologica definisce gli anni di piombo, furono in realtà il terminale di grandi battaglie economiche e sociali di un movimento operaio e delle giovani generazioni, uomini e donne, diventate finalmente protagoniste del progresso civile.
Apriamo una riflessione, forse irresponsabilmente mai fatta coralmente all’interno del movimento operaio, ma fatta troppo spesso solo dagli stessi singoli protagonisti di quella stagione o da ricostruzioni istituzionali e quindi di parte.
Senza volere trascurare l’uso che da parte di settori istituzionali si fece della strategia della tensione con le bombe e le stragi, usando manovalanza di estrema destra oltre che dei servizi segreti, la scellerata scelta della lotta armata e del brigatismo che larghi settori giovanili intrapresero, era alimentata proprio nell’aver abbassato i toni del conflitto.
Quando occorreva andare avanti nella redistribuzione del reddito, nel radicamento delle vittorie conseguite solo pochi anni prima, come la riforma delle pensioni, il punto unico di contingenza, una struttura sanitaria universale, superando le varie mutue etc. si invertì la marcia e già nella metà degli anni ‘70 si cominciò a cedere buona parte delle conquiste fatte.
Basti pensare che la riflessione sindacale nazionale definita strategia dell’EUR che scambiava la tenuta salariale con una promessa di mantenimento occupazionale chiaramente non mantenuta da parte del padronato e dai governi dell’epoca, è del 1979; la scala mobile con il del punto unico, ottenuta nel ’75, solo dopo 9 anni era già stata manomessa con il congelamento dei quattro punti di contingenza, con il famoso decreto di S. Valentino effettuato dal primo governo a giuda socialista di Bettino Craxi.
Riusare oggi l’arma della paura di uno scontro sociale non governabile, il richiamo ad abbassare i toni come viene ripetuto a seguito di alcuni episodi quali il fumogeno tirato nella Festa nazionale del PD a Torino a Bonanni, segretario nazionale della CISL, oppure il lancio di uova alla sede CISL avvenuta a Livorno, può portare all’opposto del risultato che si dice di voler ottenere.
Se non c’è una prospettiva di vittoria o per lo meno di resistenza organizzata all’attacco alle condizioni ed ai diritti dei lavoratori, gli episodi di disperazione ed intolleranza più o meno isolati possono solo crescere.
Si tratta di indicare una concreta possibilità di battaglia economica e sociale, di dare una prospettiva al movimento, solo così episodi isolati e minoritari, politicamente controproducenti, che in ogni caso sempre nelle battaglie sociali aspre e dure si manifestano, possono rimanere tali. 
Nel lontano 1976 noi giovani militanti comunisti libertari a fronte dei primi vagiti che si manifestarono di quella crisi di sovrapproduzione del sistema economico ed a fronte della riduzione salariale che i gruppi dirigenti sindacali del tempo accettarono ed introdussero nella contrattazione sindacale nazionale, affermavamo:

“…Gli anni ’60 hanno rappresentato una fase ascendente della lotta di classe. Il proletariato, particolarmente in Italia, ha ottenuto importanti conquiste, come l’abolizione delle gabbie salariali e nuovi diritti salariali. Ma la conquista maggiore è quella di un livello di combattività e unità nella lotta che ha investito il processo dell’unità sindacale, molto più alto di quello dei periodi precedenti….
…… Ci troviamo forse di fronte a un lungo periodo di depressione in cui si affermeranno nuovi rapporti tra nazioni capitalistiche, tra capitale finanziario e industriale, tra capitale e Stato …
Il livello più alto raggiunto dalla lotta del proletariato è stato nella stagione contrattuale dell’autunno ‘ 69: il movimento stava vivendo un’ascesa ininterrotta, si dava strutture organizzative espressione diretta della sua base, ….
È di fronte a questo pericolo che la borghesia e i suoi apparati statali lanciano l’attacco contro il proletariato, da Piazza Fontana ad oggi questo attacco si è andato sviluppando utilizzando abilmente fascismo e antifascismo, terrorismo, ……
…Si tratta di mettere in luce come solo le vittorie economiche aprono la strada a vittorie politiche, mentre sconfitte generano sconfitte sia politiche sia economiche, sempre più gravi”
( Azione Proletaria - I comunisti libertari e le elezioni. 14/06/1976)

Oggi come allora non sarà un presunto senso di responsabilità nazionale che potrà dare uno sbocco positivo alle condizioni economiche e sociali dei lavoratori né tanto meno la necessità di aumentare la produttività in un’assurda battaglia concorrenziale con altri stati.
Tale strategia ha il concreto ed unico significato di dividere ulteriormente i lavoratori dei singoli stati nazionali, così come delle diverse realtà industriali all’interno degli stessi stati nazionali; magari quelli della padania contro il Sud, del sud contro la Slovenia, della Svizzera contro la padania, come testimonia l’orrenda campagna xenofoba lanciata proprio in questi giorni nella democratica Svizzera contro i cosiddetti frontalieri, cioè lavoratori italiani, raffigurati come topi che rubano il formaggio, in una folle corsa al ribasso del costo del lavoro che ha il significato concreto di impoverire sempre più i lavoratori fino all’annientamento di qualsiasi capacità di resistenza.
Non è certo casuale il fortissimo attacco da parte governativa e padronale di questi ultimissimi mesi e giorni contro la contrattazione nazionale e la scelta di rilanciare la contrattazione fabbrica per fabbrica (le tristi e famose gabbie salariali) a cui per l’appunto la CISL e a UIL stanno svolgendo il ruolo degli “utili idioti”.
Per questi motivi saremo accanto alla FIOM il 16 ottobre alla manifestazione nazionale a difesa della contrattazione nazionale dei diritti dei lavoratori, per lo sciopero generale nazionale.

Ottobre 2010